
Spesso nei taccuini di appunti e nei “brani di vita” degli autori emergono non soltanto le nozioni di letteratura o gli intenti poetici, ma anche quelle intuizioni che lasciano scorgere insofferenze e virtù di un percorso individuale.
È questo il caso di Tommaso Landolfi, autore tra i più importanti e originali del Novecento italiano, che in una pagina del suo diario intitolato Des mois (1963-1964), esplora con linguaggio preciso e penetrante le virtù della naturalezza fra parlato e scritto, a favore del “limpido corso della lingua” e contro ogni affettata “compiacenza di scrittura”.
“Vi son taluni (scrittori, in particolare) che parlano meglio di quanto non scrivano.
Il motivo è manifesto: la fugacità e rapidità del discorso impedisce loro di valutare posatamente le espressioni di cui si servono e qualunque altro modo o funzione posti in atto; mentre se, se appena prendano la penna in mano, son subito assaliti da mille dubbi e da mille incertezze, in genere favorevoli piuttosto a una scrittura compiacente, sufficiente e in ultima istanza falsa.
Il parlato invero tende di per sua natura alle espressioni correnti; cui appunto lo scritto è inteso doversi opporre a qualunque patto (si vedano ad esempio le lettere dei semplici; dove, nella manifestazione di sentimenti genuini, è spiegata un’inaudita magniloquenza).
Poniamo, il tale parla e dice con perfetta agevolezza: “per forza di cose”; ma se scriva, gli avverrà probabilmente di soffermarsi un istante su questa locuzione, di proporsene la validità, di dubitarne e all’occasione rifiutarla, o di modificarla quanto basti per conferire maggior dignità alla propria pagina; egli potrà, così, giungere a un “per forza di circostanze”, che sarebbe ancora poco male, o ad un “per forza di congiunture”, dove invece cominceranno i guai: l’involuzione, e il sussiego che chiede sempre nuove vittime nella persona di sempre nuove locuzioni da violentare.
Cosa vorrei concludere è a me chiaro.
Una formula non del tutto esatta, ma che si potrebbe provvisoriamente prendere per buona è la seguente: occorrerebbe avvalersi delle espressioni e dei modi correnti finché possibile.
Finché la lingua (e l’immaginativa, l’associativa) elaborata dai millenni ci offrisse parole e modi adatti al palesamento del nostro pensiero, non dovremmo ricorrere ad altro né in alcuna maniera turbarne il limpido corso (intendiamoci, questa non sarebbe una norma imposta: dovremmo non sentire il bisogno di ricorrere).
Evidente per contro che, dove la medesima ci venisse meno, in tutti gli argomenti non affrontati solitamente dal parlato ed ai quali dunque esso si mostrasse impari, saremmo liberi di elaborare e condegno linguaggio (come appare inevitabilmente il passaggio dal dialetto alla lingua dove si tratti di sentimenti o pensieri dal primo non raggiunti o specificati); ma a tanto, ed a tale del resto vastissimo campo, dovrebbe limitarsi l’esercizio della nostra originalità.
Mentre, cosa fa una buona parte della letteratura?
Si studia d’inventare nuovi e meglio se bizzarri linguaggi anche là dove essi non sono punto necessari.
Che a parer mio è un grosso male, e che sempre più contribuisce a una rimozione della letteratura da ogni vivo contesto, quasi legittimando l’idea di coloro che la vogliono altra cosa dalla vita e conseguentemente la considerano con sorridente indulgenza semplice consolazione o compagna delle ore vuote.
Vi è tuttavia una difficoltà.
Dico: son venuto fin qui affermando, sembra, in sostanza una poetica della parola o del modo che si presentino primi; i quali sarebbero per definizione i migliori, e la sola salvaguardia contro una perniciosa compiacenza di scrittura.
Ma ecco, si danno persone cui, del tutto naturalmente, costituzionalmente, si presenta per prima e con invincibile diritto di precedenza la parola rara, il costrutto prezioso, l’accezione desueta, la lezione più difficile.
Ebbene, cosa faremo di costoro?
E anzi, cosa faranno costoro di se stessi?
Un fiero imbarazzo: riportarsi a valori correnti essi non potranno senza violentare la propria natura, senza tradire, con questa, ciò che sta loro a cuore esprimere senza in caso macchiarsi la coscienza, ché la loro ricerca di umili e familiari espressioni equivarrebbe, sebbene opposta, a quella dei tali che al contrario si arrampicano su per i peli di una letteraria dignità, crudele statua d’impotenza.
I primi verrebbero, come i secondi, a dare di poetica in retorica…
Via, codesti primi il meglio sarà, credo, prenderli per quello che sono.
Padronissimo ognuno di abborrirli, ma come si può abborrire uno pel suo naso grosso o per i suoi capelli biondastri, non per una loro supposta doppiezza, per una loro volontà di mistificazione o per le loro arie di superiorità (così le chiamano).
Eh, superiorità: forse a loro per primi cuoce quel particolare giro o garbo dei loro cervelli! …”
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