
La luce bassa del sole del tramonto trafigge i finestrini mentre il treno sferraglia veloce verso casa.
Nel vagone siamo in pochi.
Mascherinati e distanti proprio come questo nostro tempo ci vuole.
Qualcuno in fondo alla carrozza sonnecchia bocca aperta contro vetro.
Più in là, una donna guarda fuori rapita da un sovrappensiero, mentre di lato un uomo sbuffa la noia tra le pagine di un quotidiano.
Di fronte a me, siede una ragazza.
Vent’anni o poco più.
Tra le mani, un libro.
Deve trattarsi di qualcosa di speciale.
Si perché, da quando si è seduta e ha preso a leggere, non si è fermata un istante.
Non solo.
È come ipnotizzata.
Come sotto l’effetto di un incantesimo.
Sembra quasi che sul suo volto vada in scena tutto ciò che di incredibile e sensazionale si rivela ai suoi occhi, riga dopo riga.
Ecco, si spalanca lo stupore.
Un istante appena e diviene smarrimento.
Strabuzza gli occhi.
Ripete silenziosa a fior di labbra le ultime parole appena lette.
Sottolinea, mangia le unghie.
Sorride e prende appunti.
Un secondo ancora ed è di nuovo meraviglia.
La stessa meraviglia che si disegna sul volto di una bambina che assiste stupefatta ad un gioco di prestigio.
“Potere della scrittura!”, penso tra me e me.
Proprio così!
A pensarci bene, poche volte in vita mia ho visto qualcuno leggere un libro con un simile trasporto.
E ciò non fa che accrescere sempre più la mia curiosità.
Ma il sole in controluce trascolora la sovraccoperta lucida e non mi lascia scorgere né il nome dell’autore, né il titolo del libro.
E, costretto al mio posto, non posso fare altro che aspettare.
Vagoni d’altri tempi quelli in cui, con un po’ di abilità, si riuscivano a sbirciare le letture degli altri viaggiatori.
Come quella volta in cui feci un intero viaggio in piedi.
Stretto nel mio angolo, tra la calca e il chiacchiericcio, ero riuscito a leggere, pagina dopo pagina, tutti i racconti che un signore, appena un passo davanti a me, aveva preso a sfogliare durante il tragitto.
“Belli… belli davvero!”, mi ripetevo.
Alla fine di quella corsa pensai di aver fatto mia la rara abilità di sbirciare senza farsene accorgere.
Almeno fino a quando il treno aprì le sue porte e l’ignaro viaggiatore, che si apprestava a scendere, si arrestò, si voltò e mi disse:
“Tenga… gliela regalo!”, sorridendomi divertito.
“Mollarla così… su due piedi… al primo che capita! …” pensai, tra l’imbarazzo e lo stupore, la sorpresa e la gratitudine.
Quella volta, studente squattrinato, me ne tornai a casa con una bellissima raccolta di racconti di Guy de Maupassant.
Ma ora è diverso.
Non so se ho davvero imparato l’arte della discrezione, visto che non riesco a smettere di guardare la ragazza di fronte a me.
In ogni caso, metto subito da parte l’idea di chiederle cosa stia leggendo.
In fondo, a nessuno va di essere svegliato nel bel mezzo di un sogno.
Tantomeno voglio essere io a riportarla con la mente nel vagone di questo treno.
Confido piuttosto in un movimento.
Un gesto che mi lasci intravedere, anche solo per un istante, l’immagine in copertina.
Ma niente da fare!
Mi tocca attendere.
Attendere che il sole vada a spegnersi da qualche parte laggiù, nel mare del golfo, e che prendano ad accendersi, uno dopo l’altro, i lampioni delle periferie.
Ecco che allora il bagliore svanisce dalla sovraccoperta e riaffiora chiaro e nitido il nome dell’autore e il titolo del libro:
Tiziano Scarpa, La penultima magia.
“Caspita! …”, penso tra me e me.
“…adesso si spiega tutto!”, mentre rimango a bocca aperta.
Continuo ad osservare la ragazza.
Più la guardo e più non riesco a smettere di farlo.
Come non riesco a smettere di guardare lo stupore e la meraviglia che si disegnano, pagina dopo pagina, sul suo viso.
Ma lo comprendo appieno.
Si perché La penultima magia è un romanzo bellissimo.
Un romanzo che ho finito di leggere appena qualche giorno fa e che ho ancora qui con me, di ritorno da questo mio viaggio.
Un libro che mi ha incuriosito ed emozionato come pochi libri sanno fare.
Un romanzo che, chiusa l’ultima pagina, mi è rimasto nella mente e mi spinge a interrogarmi sul potere che la scrittura ha di raccontare l’esistenza.
Una storia, quella de La penultima magia, che veste i panni della fiaba, per assumere di colpo i caratteri di un vero e proprio classico di questo genere.
Mi sovviene l’incipit.
Incipit che, ad ogni nuova rilettura, mi ha fatto risalire, di volta in volta, il rocambolesco sentiero tracciato dalla storia, dove ogni nuovo capitolo è una nuova porta d’accesso verso luoghi diversi, tanto dello spazio quanto dell’anima:
“Se quella notte foste passati anche voi per via Canotti, non lontano dalla piazza principale della città di Solinga, avreste visto due luci andare avanti e indietro, a qualche metro d’altezza da terra.
Una era gialla, l’altra azzurra.
Chi erano?
Che cosa facevano tutte sole nella città addormentata?
Erano le luci di due lampioni.
Si, proprio due lampioni:
camminavano ai lati della strada, con le loro lunghe gambe di metallo, ciascuno sul suo marciapiede.
A Solinga i lampioni non si limitavano a illustrare le strade.
Avevano anche il compito di perlustrarle.
Quei due camminavano tenendo le mani dietro le schiene smilze, un po’ curve, con le dita intrecciate, la testa china, lo sguardo a terra.
Erano molto in ansia perché le otto del mattino erano passate da un pezzo, ma intorno a loro il buio era profondo.
La notte era ancora lì.
Il sole non si faceva vivo.”
E si, Solinga è una città davvero particolare, come i suoi abitanti, del resto.
Una città dove sono le caffettiere a preparare la colazione, mentre i negozi dormono ancora un po’.
È il posto dove tutti gli oggetti possono avere un’anima.
Il posto dove ha deciso di vivere Renata Paganelli, dopo che la sua vita è stata segnata da qualcosa di veramente brutto.
Il luogo nel quale nonna Renata ritorna ad essere protagonista del suo mondo:
“Tutte le cose sparse nella stanza si muovevano lievemente, senza spostarsi da dove stavano:
si gonfiavano di poco, e poi sgonfiavano, a ritmo.
Erano oggetti addormentati, che respiravano dormendo.
Allo stesso modo, i muri, il pavimento e il soffitto si allargavano appena e poi si restringevano:
anche loro dormivano, respirando quieti.
Al centro della camera c’era un grande letto:
più che di cuscini e trapunte, sembrava fatto di panna e nuvole, talmente era morbido.
Dall’orlo del lenzuolo spuntavano fuori una faccia rotonda, con i pomelli rossi sulle guance, e un sorriso placido.
I capelli erano bianchi, attorcigliati in due grosse trecce.
Dormiva russando un po’.
Il raggio di sole si allungò sopra la trapunta del letto, accarezzò una guancia e picchiettò su una palpebra chiusa:
Toc toc!
La vecchia donna aprì gli occhi.
Toc toc!
Tirò fuori le braccia da sotto le lenzuola e si stiracchiò sbadigliando.
«Chi è?» domandò.
Il raggio di sole perse la sua forma, si dissolse in una nebbiolina luminosa, irradiando di luce leggera tutta la camera.
La donna si guardò intorno:
vide la camera, le mensole, gli oggetti che la circondavano: anche loro stavano sbadigliando, proprio come aveva appena fatto lei; si stiracchiavano e la fissavano negli occhi (…).
«Ma voi chi siete?»
«Le tue creature. Ci hai fatte tu così», disse il mappamondo bianco.
«Io?»
«Tu, si. La nostra buona fata».
«E come mi chiamo?»
«Renata. E oggi è il tuo compleanno».
«Davvero? Quanti anni compio?»
«Millantaquattro. Tanti auguri!»
La vita di nonna Renata procede al ritmo della sua fantasia, tra la cucina e il salotto, i viali e le piazze della città.
Almeno fino a quando, un bel giorno, gli abitanti di Solinga, sindaco in testa, si presentano alla sua porta e pretendono che la città ritorni ad essere quella di una volta.
A nonna Renata viene offerta la possibilità di riprendere con sé la piccola Agata, sua nipote, fino ad allora vissuta in orfanotrofio.
A patto che rinunci ai suoi incantesimi e inizi ad affrontare una volta per tutte la realtà.
Cosa non si farebbe per il bene e l’amore di Agata!
E poi, provare a reimparare la vita normale, alla sua età, potrebbe essere una sfida davvero avvincente:
“Il buio finì.
Davanti c’era una luce lattiginosa.
Era un biancore sfuocato, che entrò attraverso una fessura sottile:
prima delicatamente; poi tutto insieme, come un’alluvione luminosa.
Di fronte a quella luce si formò qualcosa.
Che cosa?
«Ho capito. È un pensiero. Il mio pensiero. Dove mi trovo? Sono dentro una testa, questo è sicuro.
Ma questa luce bianca, da dove viene?
Mi sta entrando dagli occhi, anche questo è sicuro.
E io chi sono?»
«Si è proprio svegliata», disse una voce.
«Signora Paganelli», disse un’altra voce, premurosa e calma.
«Nonna, nonna!» disse un’altra voce ancora, più esile, emozionata.
A poco a poco, tutto si fece un po’ più nitido.
Sopra la testa che stava ricominciando a pensare, c’erano tre mongolfiere chinate su di lei: dondolavano lente, fluttuando nell’aria.
Avevano ognuna due occhi.
La guardavano.
«Non sono mongolfiere, sono facce», pensò la testa, e notò che una era ancorata a un grembiule bianco».
«Si chiama camice», si disse la testa che stava reimparando a pensare, ed era soddisfatta, perché iniziava a riconoscere le cose.
E nel camice è infilata una dottoressa.
Ma perché mi ha chiamato signora Paganelli?
La testa capì di essere collegata anche lei a qualcosa: riusciva a sentirlo, era una massa morbida, ampia e lunga:
dove finiva?
Non le dispiaceva avere un corpo così largo e soffice.
«Ma no: non è il mio corpo, è un letto», pensò, «e io ci sto dentro, fra le lenzuola».
Provare a reimparare la vita normale, come detto, potrebbe essere anche la più rocambolesca delle avventure.
E nonna Renata è disposta a tutto per la felicità della piccola Agata.
Tuttavia, come spesso succede, sono i bambini a mettere al mondo gli adulti.
E, ne La penultima magia, romanzo edito da Einaudi, è proprio la piccola Agata a prendere per mano nonna Renata e a ricondurla alla vita.
Agata vi riesce attraverso il proprio entusiasmo.
Un entusiasmo capace di spingere nonna Renata ad uscire di casa e a trascinarsi oltre i confini di sempre e oltre i propri limiti.
Una forza in grado di portare l’anziana donna verso i territori più impervi e sinistri, lontano da Solinga, ma anche verso quelli più intimi e dolorosi della sua stessa fantasia e della sua stessa anima.
Una storia dolce, avvincente, come solo le grandi fiabe sanno essere.
Una narrazione capace di porre il lettore al cospetto dei sentimenti più intensi e profondi.
Ritorno con la mente nel vagone di questo treno.
La ragazza di fronte a me continua la sua lettura de La penultima magia.
A ben vedere sembra abbia superato già da un po’ la prima parte del romanzo.
Forse è a colloquio con il “signor Polveroni”
Oppure si appresta a scalare il monte Macigno.
O, forse, è alle prese con la statua della Felicità che, come nella migliore tradizione letteraria, ha preso a spostarsi.
O, semplicemente, sorride per le bizzarrie di gatto Misfatto.
Osservo la ragazza seduta al suo posto, compita ed elegante nelle sue movenze.
Soprattutto, ignara dei miei pensieri.
Mi chiedo se, con gli occhi dei vent’anni, il dolore e il dramma che si celano dietro la prosa leggiadra di questa prosopopea, possono avere un sapore diverso.
E se, eventualmente, possono avere una spiegazione differente.
Penso alla voce delicata di questa storia, tipica della fiaba.
Alla musicalità della sua lingua.
A come la scrittura vivida de La penultima magia, renda sensazionale il viaggio tra gioia e angoscia, amore e disincanto, abbandono e speranza.
Una scrittura posta interamente al servizio della rappresentazione, capace di mostrare e far vivere al lettore le sfumature e i dettagli più intensi di qualsiasi scena.
Penso a nonna Renata.
Al punto oltre il quale, un essere umano, può giungere a prediligere la compagnia della propria fantasia e degli oggetti intorno, a quella degli altri esseri umani.
La voce registrata annuncia la prossima fermata.
Nessuno sembra farvi caso.
O, semplicemente, nessuno sembra essere interessato.
L’uomo in fondo alla carrozza continua a sonnecchiare.
Più in là, la donna osserva sovrappensiero le insegne al neon della città oltre il vetro, mentre l’uomo di lato ha avvolto e riposto la sua noia sottobraccio, tra le pagine del quotidiano.
Di fronte a me, la ragazza è immersa ne La penultima magia.
Chissà in quale radura si troverà in questo momento e con quali personaggi e alle prese.
Soprattutto, chissà cosa penserà di tutto questo.
In lontananza intravedo le luci della stazione.
Si avvicinano sempre di più.
Raccolgo i miei pensieri e le mie cose e, sacca in spalla, mi avvio verso l’uscita.
Il treno rallenta ancora un po’.
È quasi fermo.
Do un’ultima occhiata al vagone.
Non c’è nessuno.
Si aprono le porte e in un istante sono fuori.
In strada, le luci della sera mi fanno compagnia.
Una dopo l’altra mi accompagnano fin sotto casa.
Vicino alla mia porta, due lampioni.
Uno accanto all’altro.
L’uno attraversato da un’intermittenza frenetica che sa di luce stroboscopica.
L’altro, appeso a un filo, dondola silenzioso alla brezza della sera.
Un giorno o l’altro li ritroverò riparati.
O, forse, fulminati del tutto.
Chissà!
Provo a immaginare i loro pensieri.
A cosa si stanno dicendo.
Forse mi hanno visto arrivare.
O forse no.
Rimango ad osservarli ancora un po’.
Appena un secondo.
Un attimo ancora, prima di finire ingoiato dall’oscurità della porta di casa mia.
Scrivimi