Napùl: una crasi incastrata come un’ogiva nell’intonaco di una stesa

Napùl Marco Perillo

Alle cinque e trentasette del mattino, un fievole raggio di sole, ammazzaruto a novembre, scavalcò la gobba del Vesuvio per andare a scetare il mare.

Faceva così ogni santo giorno, quando il cielo si strappava la nottata da cuollo per diventare prima violetto e da lì cobalto, rosa, beige.

Di primo acchito, quel raggio si liberò dei contorni dell’alba e se ne scappò per fare di testa sua.

Si mise a superare una nube incagliata a mezz’aria, sfiorando le sagome delle case ammassate e il disordine delle gru giù al porto.

Si portava addosso, a mo’ di mantello, una scia di sale, strusciandosi sopra le saracinesche e i rigagnoli d’acqua dei marciapiedi.

Quasi per sfizio, si divertiva a solleticare i manifesti elettorali lungo le crepe delle pareti, a graffiare qualche macchina lasciata in doppia fila, a sputare sulle persiane semichiuse, illuminando le stradine che portavano giù ai decumani fottendosene altamente dei passi carrabili, dei cassonetti stracolmi, dei lampioni che man mano, quasi a farlo apposta, si stutavano.

Per colpa sua – della sua luce neonata – dentro alle case cominciavano a stiracchiarsi le zantraglie dei sughi, gli urlatori di frutta, gli ambulanti olive e capperi.

Nonostante il freddo, lo stomaco della città ricominciava a brontolare; s’inchiurcava d’anime riprendendo fiato.

E tutto per lui, per un misero raggio di sole, che adesso si stava andando a infizzare dietro una cupola e a un groviglio di antenne.

Di slancio, sospinto dall’arteteca, si mise a oltrepassare un tetto con i mattoni a spina di pesce, sorvolando le mollette di un filo appeso a un balcone per gettarsi di forza sotto allo stipite di un portale.

L’androne che gli si aprì davanti era piuttosto grande; fronde ai lati e pavimentazione color topo.

Eppure fu un gatto – un micio scuro, col petto bianco – che, come lo vide, fece un balzo da dietro a una pianta di ficus e lo acchiappò.

Con un po’ di cazzimma, il felino se lo portò appresso lungo i sette scalini che conducevano all’ingresso.

Poi, con una lieve zampata, aprì la porta e lo introdusse in un ambiente così buio – e così cavo – che lui, quel povero raggio di sole solitario, non avrebbe potuto illuminare manco sicché.”

 

C’è un suono, impercettibile ai più, che è possibile ascoltare soltanto perdendosi tra le strade di Napoli, lasciandosi alle spalle il sole e il mare, la pizza e le belle canzoni di una volta.

Un suono che non si origina dal caos metropolitano, ma che in esso si confonde.

Qualcosa che viene dal mare, da un tempo e un luogo lontano.

Un suono che nella conca del golfo si fa eco, che dalle viscere della città risale e in esse ridiscende.

Una pulsazione che accorda il ritmo di Neapolis a quello di molte città disseminate lungo le coste del Mediterraneo e a quello di molte città del Medio Oriente, più che alle metropoli del vecchio continente.

Una, in particolare: Kabul.

Napoli e Kabul.

Due città in guerra continua.

Realtà in perenne divenire.

Due complessità irrisolte.

Terre lontane, dove la trazione continua tra bene e male, vita e morte, ricchezza e povertà, sfortuna e buona sorte, sembra riprodursi per assonanza, come per effetto di una relazione osmotica.

Napùl: una crasi incastrata come un’ogiva nell’intonaco di una stesa.

Un’immagine capace di veicolare appieno le mille e più contraddizioni di una città, Napoli, in perenne oscillazione tra vertiginosi estremi.

Gioia e dolore, voglia di riscatto e abbandono, antichi retaggi e nuove sfide lanciate dalla postmodernità.

Lo sa bene Marco Perillo, giornalista e scrittore partenopeo, acuto osservatore della città, già autore di saggi, tra i quali, 101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere, I luoghi e i racconti più strani di Napoli, Storie segrete della storia di Napoli, Misteri e segreti dei quartieri di Napoli, pubblicati da Newton Compton Editori.

Fa fatica quel raggio di sole ad entrare nelle pieghe della città, negli anfratti più bui.

Proprio così!

Ecco che allora la penna di Marco Perillo, redattore de Il Mattino, inizia a scendere in profondità e a scavare proprio in quella parte oscura.

Laddove la cronaca e il reportage si fermano, è la trasfigurazione narrativa a prendere per mano e condurre il lettore nella discesa verso un fondale più buio e nero, dove si misurano, in un corpo a corpo serrato e senza soluzione di continuità, le diverse anime della città.

Quelle diverse anime capaci di muovere i fili di ciò che accade in superficie e determinare le sorti di donne e uomini.

Napùl è proprio questo, un viaggio tra gli echi di quella vibrazione che si propaga sulla città e nella città, da un quartiere all’altro.

Una raccolta di quindici racconti edita da Alessandro Polidoro Editore, inserita in quella collana, Perkins, in cui trovano sempre più espressione le narrazioni sul nostro tempo.

Quindici racconti, ambientati in quartieri diversi di Napoli, che è possibile leggere anche come capitoli di un’unica grande narrazione.

Il risultato è un puzzle di notevole potenza espressiva, capace di restituire una geografia urbana dell’immaginario e della realtà partenopea, particolarmente vivida.

La realtà vista e raccontata da prospettive diverse.

Ad accompagnare il lettore nel suo viaggio nella città, ad ogni tappa, uno sguardo e un punto di vista differente.

Tanti quanti sono i personaggi e le storie che affollano le pagine di Napùl.

Vi è il ricordo dell’attentato alle Torri Gemelle, restituito dagli occhi di chi, quei terroristi, li aveva conosciuti davvero.

L’amore-trans di Amélie, che dalle parti del Borgo Orefici, una sera come tante, è testimone di un agguato, negli stessi istanti in cui si sta consumando la tragedia al Bataclan, in quella Parigi che l’aveva vista finalmente rinascere donna.

E poi Fortuna, cinque anni; guarda il mondo dal balcone di casa e la buona sorte sembra averla incisa non solo nel nome, da quando mamma e papà hanno finalmente trovato il modo di sbarcare il lunario, confezionando polvere bianca.

Jonathan, che dal silenzio del vetro della camera sua avverte il fragore, da qualche parte, lì fuori, che sbriciola una delle Vele di Scampia:

 

“Tu ripensi a quando lì davanti andavate da bambini a festeggiare il Carnevale, e mamma faceva le chiacchiere e il sanguinaccio.

Un altro bagliore, improvviso, ti coglie e ti rapisce i ricordi.

Vedi la Vela spaccarsi in due, come fosse venuto il terremoto, o come se semplicemente ti trovassi sul set di un film.

I piani collassano uno a uno, prima piano, poi piombano al suolo.

Si ode un rumore sordo, come di un grosso ramo secco spezzato.

Come i mattoncini del castello Lego di quando avevi sette anni, crolla tutto, vedi la sommità schiantarsi al suolo, e una nuvola di polvere grigia immane addensarsi, quindi alzarsi in un rimbombo che farebbe ammutolire anche ottantamila tifosi allo stadio.

Qualcosa si è rotto, in quel cemento che sempre hai avuto davanti casa, che guardavi dalla tua stanzetta a terra, dopo la tua drammatica capriola.

Qualcosa si è rotto, qualcosa è crollato.

Calcinacci, pietre e contrafforti svaniscono nel polverone.

A quel punto avverti qualcosa che scroscia come pioggia: sono applausi.

La gente del quartiere batte le mani da lontano, oltre le finestre chiuse, assomigliando a tante formiche.

Senti qualcosa di caldo che ti scende sulle guance.

Finalmente piangi, Jonathan.

Non lo sai nemmeno tu perché, ma una lacrima ti sta rigando il viso.

L’assapori, è amara, ma ti piace.

Non ti sei sentito meglio di adesso, in questo momento.”  

 

Ancora: quel corpo a corpo, nel tentativo di aprirsi un varco nel traffico cittadino, tra una baby gang e il conducente di un autobus, dove, trofeo della contesa, finisce per essere l’autobus stesso.

E quella madre, all’Arenella, che decide di denunciare il figlio nella speranza di riuscire a strapparlo via dalla tossicodipendenza.

La tragicommedia di un padre delinquente che si oppone al fidanzato della figlia.

La parabola esistenziale di Pascallah, un ragazzo napoletano che finge di convertirsi all’Islam con l’intento di entrare a far parte della comunità musulmana locale, presso cui spera di riuscire a trovare finalmente un lavoro e sistemarsi una volta per tutte:

 

“Lui, Pascallah, a ventinove anni non aveva ancora trovato un lavoro.

 A emigrare non ci pensava nemmeno, a fare il cameriere rovesciava tutti i piatti a terra.

 L’unico pregio – o difetto – che avesse era il colore della pelle, talmente scura da farlo prendere per un turco.

 «Pascalì», gli aveva detto quel giorno suo padre, masticando una bacchetta di liquirizia ché i soldi per le sigarette non ce li aveva.

«Tu si’ tale e quale agli Indù. Tutti quanti, nel quartiere, te lo dicono. Tieni ‘sti mustacci scuri, ‘o naso e ‘a smorfia e nu marocchino. Io i soldi ‘a casa non li riesco più a portare, tu il mio mestiere non lo sai fare e il fattorino e il portiere di notte manco a parlarne».

Da tre giorni non mangiavano altro che scatolette di tonno, qualche Simmenthal.

Papà, seduto di fronte a lui, teneva una carnagione più abbronzata della sua, il naso deviato e qualche livido ai polsi.

Una maglietta stinta e larga come un lenzuolo, i capelli pettinati a piuma di colomba e l’odore di panino al prosciutto che emanava.

«Ora, hai visto che vicino alla Moschea del Mercato gli Indù si stanno aprendo tutti quei negozietti?

Mò stanno andando forte, gli arabi, c’hanno un loro quartiere, tengono ‘o furmaggio: ‘o petrolio.

Se tu vai dall’Imàmmo e gli chiedi di lavorare, come ti vede ti prende perché assomigli a uno di loro…

Basta che gli dici che ti vuoi convertire, e che ti piace Maometto e tutte quelle cose là.

Quello t’istruisce, ti battezza, e tu riesci a trovare na fatica.

Poi sta a te nun fa’ guai, ma magari ti pigliano a cuore e ti mandano in Libia a fa’ la vita d”o sceicco!

Pascalì, ma che tieni da perdere?

Che stai aspettando ancora?

Io, dind” a ‘sta casa, nun te posso mantene’.

Se è nu fatto ‘e religione, tu cristiano non lo sei mai stato.

In chiesa non ci vai mai, e se don Felice il parroco si prende collera noi gli rinfacciamo che per te ha fatto sulo chiacchiere.

Se pe’ campa’ diventi mussulmano, Pascalì, qua nemmeno Gesù si deve offendere».”

 

Marco Perillo ben sa che per descrivere il paradosso e l’esasperazione, l’incredibile e l’esagerazione che muovono il reale in una città come Napoli, non vi è chiave più efficace che quella del grottesco.

Proprio così!

I quindici racconti di Napùl sono storie all’insegna di un realismo grottesco.

Vicende tragicomiche, dove la tensione emotiva buca il velo del reale per mezzo soprattutto di una lingua tesa e dilatata fin quasi ad esplodere.

Una lingua, quella innescata dall’incontro tra italiano e napoletano, fatta di increspature e screpolature e che rilascia, per effetto, tutta la sua potenza espressiva e la sua pregnanza semantica.

Un suono, quello dei quindici racconti della raccolta, ricco di cacofonie e dissonanze, in cui si incontrano, scontrano e sovrappongono, i suoni e i rumori della città in superficie e le pulsazioni della città di sotto, quella di dentro e quella di fuori.

Un libro, Napùl, che se fosse un disco risuonerebbe, più che come una sinfonia, come Urban Magic dell’Art Ensemble of Chicago.

O, perché no, come la meravigliosa Brass Fantasy dell’indimenticabile Lester Bowie.

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