
La prosa unica e inconfondibile di Gesualdo Bufalino è una vera e propria lezione di stile.
Lezione di stile che trae origine, in primis, dall’uso che lo scrittore di Comiso fa della lingua.
Per l’autore siciliano, come si evince dalla lettura delle sue opere, la lingua è una fonte preziosissima e inesauribile da cui attingere per comporre, parola dopo parola, riga dopo riga, le singole tessere che danno vita al grande mosaico della narrazione.
Lingua intesa prima di tutto nei termini di ricerca minuziosa e certosina, di ricomposizione puntuale e accurata di tutti i suoi elementi, nella quale Bufalino, “compositore” della parola, mette insieme le note della sua sinfonia.
Una lingua che diviene strumento e che, in quanto tale, è piegata e forzata e portata ai limiti delle sue possibilità espressive, al punto da rilasciare, per effetto, una potenza narrativa straordinaria, capace di accordarsi appieno con quelle che sono le esigenze estetiche e le sfumature di senso ricercate dall’autore stesso.
Il risultato è un distillato di forma tra le forme, di significato tra i significati, dal carattere pressoché unico.
La lingua come strumento
Diceria dell’untore (Sellerio, 1981), opera che segna l’esordio all’età di sessant’uno anni di Bufalino, narra la storia d’amore e morte di figure sospese nel limbo della guarigione dalla malattia.
Storia per la quale l’autore sceglie l’ambientazione cupa di un sanatorio della Conca d’oro, la pianura di Palermo, al termine della Seconda Guerra Mondiale.
Funzionale alla definizione dell’atmosfera drammatica e sospesa che caratterizza il romanzo è soprattutto lo stile inconfondibile della scrittura di Gesualdo Bufalino.
Uno stile lirico, intenso e denso, barocco per la rifinitura di ogni singolo dettaglio.
Stile che diviene esso stesso figura tra le altre figure, fragili e tragiche, che attraversano la storia, e che si pone nei termini di un silenzioso dialogo con esse.
A tal proposito, l’usus scribendi di Bufalino ruota intorno ad un principio primo assoluto: scegliere le parole più adatte.
Lo scrittore siciliano seleziona in ogni singolo passaggio quella parola che, meglio di ogni altra, può veicolare la sfumatura di senso desiderata.
Quella parola (in quanto combinazione di forma e suono, significante e significato) che è in grado di “reificare” l’atmosfera immaginata, consapevole che la capacità esplicativa e l’efficacia di una scena non dipendono soltanto dalla scelta delle immagini e delle azioni.
La potenza espressiva e l’efficacia di una scena è, prima di tutto, una questione di parole.
Più precisamente: le parole scelte per descriverla.
La lingua nella sua dimensione musicale
Nel breve brano riportato di seguito, tratto dal romanzo Diceria dell’untore, si narra di una sagra di paese, di ragazze agghindate che scendono in strada a godere quel poco di libertà concessa loro nei giorni di festa:
“Scurissime le facce, ma allegre di sapone recente, nell’atto in cui si affacciavano fra graste di basilico a vedermi passare.
E già uscivano per la prima messa le ragazze, asinette bardate per la fiera del santo.
Accordellate nei busti di velluto, con gonne di rafia a fiocchi e calze turchine, costumi che pensavo in disuso, camminavano come signore distribuendo a destra e a manca la tenera mafia degli occhi.
E l’umile fondale del vicolo da cui sbocciavano, fra gabbie di galline e zacchere sparse, piuttosto che mortificare l’alterigia del passo, pareva conferire un di più di gloria e di teatro alla scena.”
Facciamo attenzione al registro narrativo impiegato in questa piccola scena.
Nella descrizione le fanciulle non si limitano a venire fuori da un vicolo sporco e maleodorante, piuttosto “sbocciano”.
Con l’impiego di questa parola, Bufalino suona una nota efficacissima e raffinata.
“Sbocciano” ed ecco che il lettore inizia a vedere le ragazze come figure che catturano lo sguardo con la loro grazia e dolcezza e con la vividezza dei colori che richiamano i fiori.
L’effetto delle metafore non si esaurisce qui, ma si prolunga.
Le ragazze che sopraggiungono, non si limitano a lanciare occhiate a caso qua e là, piuttosto spargono intorno “la tenera mafia degli occhi”.
Quanta potenza espressiva hanno queste cinque parole, queste cinque note, così combinate:
“la tenera mafia degli occhi”.
Con il ricorso a questa espressione, di derivazione vernacolare, piena di sfumature di significato, lo scrittore siciliano riesce a far risuonare all’unisono la consapevolezza di sé con lo smarrimento, la purezza con la malizia.
Questa associazione, questa sola nota, è in grado di rilasciare una descrizione intera e compiuta, di sprigionare un’immagine intensa e autentica che nessuna sequenza di aggettivi e periodi avrebbe potuto rendere con la medesima potenza e capacità evocativa.
Il comprensibile divario (e in questo vi è il fulcro di questa grande lezione di stile) che intercorre tra la sostanza dei pensieri di uno scrittore e la forma che essi assumono sulla pagina, può assottigliarsi, fino a scomparire, soltanto se si persevera nella ricerca della parola più efficace, nella ricerca della nota giusta.
Ma questa congiuntura non esiste certo a priori ed il suo raggiungimento è cosa tutt’altro che scontata.
Solo nei casi in cui nello scrittore si sintetizzino talento, conoscenza profonda della lingua (o delle lingue) in cui si scrive, intuizione ed estro creativo (come nel caso dell’autore siciliano), è possibile tendere ad essa.
La lingua, come ci insegna la scrittura di Bufalino, è un dispositivo fluido e dinamico, in perenne mutamento.
Ed è con questa consapevolezza che ogni scrittrice e scrittore deve accingersi a maneggiare la materia “parola”.
Ovvero: fluidità e dinamismo della lingua come apertura a possibilità espressive nuove.
Lo stile come tratto distintivo
Viene da sé, quindi, che conoscere a fondo la lingua in cui si scrive e avere consapevolezza della ricchezza di sfumature e della pregnanza semantica insita in essa, è assolutamente fondamentale.
Ma ciò non basta.
Occorre che uno scrittore faccia propria l’attitudine a plasmare le parole con significati nuovi, finanche a trascendere il loro ambito semantico originario.
È questa l’ulteriore lezione che ci viene impartita da un altro breve brano, sempre tratto da Diceria dell’untore, riportato di seguito:
“Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che ne partiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi del repentaglio che m’ero lasciato alle spalle come dell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, in attesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’avventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visioni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità.
Caduto il vento, la cui mano m’aveva a più riprese sospinto nella discesa, il silenzio era pieno; i miei passi, quelli d’un ombra.
Non restava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sempre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro, uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavano frantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasticate in eterno da mascelle senili.”
Bufalino narra di uomini “purgatorialmente” addossati gli uni agli altri.
Con questo avverbio, l’autore è in grado di suscitare uno stato d’animo che non è soltanto di malinconica rassegnazione, ma che è anche capace di richiamare stati d’animo altri, indefinibili, evanescenti, che solo mediante il rimando al “purgatorio” è possibile evocare.
Ovviamente un’esplorazione profonda della lingua non necessariamente sortisce, come effetto, la medesima effervescenza linguistica presente in romanzi come Diceria dell’untore (1981), Le menzogne della notte (Premio Strega 1988) e come nel resto degli scritti che costituiscono l’intera opera dello scrittore siciliano.
Tuttavia è questa la lezione che si impara leggendo Bufalino.
Lezione che ogni autrice e autore, soprattutto giovane, dovrebbe fare propria nel percorso di maturazione del proprio personale stile di scrittura.
Lezione di stile che si potrebbe provare a sintetizzare nei seguenti punti:
– andare oltre il limitato ventaglio di termini ed espressioni della lingua parlata o della lingua scritta di livello ordinario, e scendere ad un livello più profondo riportando in superficie espressioni e termini desueti;
– coniare nuovi termini;
– tentare associazioni semantiche e combinazioni linguistiche nuove;
Ma prima di tutto e sopra ogni cosa:
considerare ogni singolo termine come il risultato di una scelta fatale e irrinunciabile.
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