
Leggendo le opere di alcuni scrittori sovviene immediata una riflessione riguardo la lingua da essi utilizzata.
Per alcuni autori, infatti, la ricchezza espressiva della lingua italiana, dei dialetti o delle lingue straniere, sembra essere insufficiente a soddisfare le proprie esigenze narrative, al punto che essi preferiscono forzare e piegare, smontare e ricomporre una lingua (o più lingue insieme), fino a crearne una nuova.
Si tratta di autori che lavorano prevalentemente sulla commistione di linguaggi e stili, registri e suoni, che danno vita a degli impasti spesso originali, modulati lungo un continuum che va dalle gradazioni più infime, proprie dei gerghi triviali, a quelle più raffinate ed eleganti, tipiche dei modelli letterari ufficiali.
È il caso delle cosiddette “lingue inventate”, ovvero quegli idiomi (idiomi talvolta dotati anche di una sintassi propria) costituiti da termini e locuzioni tanto singolari e affascinanti quanto di difficile lettura e comprensione.
Nello spettro enorme di opportunità espressive, ampio tanto quante sono le possibilità di scomporre e ricomporre gli elementi non soltanto di un solo idioma ma di più idiomi messi insieme, si rileva, come detto, l’esistenza di lingue completamente artificiali e artificiose, che suscitano nel lettore indiscutibile curiosità e fascino. Curiosità e fascino che derivano proprio dal loro carattere di unicità, che le rende decisamente preziose.
Il tentativo di scrivere un’opera in una lingua inventata non è certo un tratto esclusivo della narrativa del nostro tempo, visto il numero di racconti e romanzi del genere presenti in letteratura. Oggi come in passato alcuni autori, nel pieno della propria ricerca espressiva, propongono soluzioni linguistiche nuove per raccontare una storia.
Tuttavia sperimentazione non è necessariamente sinonimo o garanzia di qualità del risultato finale. È bene sottolineare questo aspetto. In molti casi il lavoro di ricerca espressiva rivela una sperimentazione vuota e fine a se stessa, che non conferisce certo un valore aggiunto all’opera.
I motivi per cui i tentativi di “giocare a forzare” le strutture e la lingua si rivelano spesso infruttuosi possono essere diversi. Quello principale è legato al fatto che la sperimentazione non è messa al servizio di un’idea narrativa davvero efficace.
Per comprendere meglio che cosa si intende per sperimentazione linguistica di successo possiamo approfondire due mirabili esempi che ci vengono da due importanti autori italiani: Vincenzo Consolo e Giovanni Testori.
Vincenzo Consolo e le incursioni dell’oralità
Come detto, le lingue inventate spesso sono tutt’altro che chiare e codificabili ad una prima lettura. Lingue che, nei casi più singolari, sono in grado di rendere addirittura criptico anche il contenuto più semplice.
Immaginando di trasferirle sul piano delle arti figurative potremmo individuare il loro naturale corrispettivo nelle pitture zeppe di mille e più particolari o nelle sculture piene di volute della più radicale arte barocca.
Non è un caso che lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo dà al suo quinto libro il nome di una pala d’altare in lingua spagnola, Retablo.
Retablo, che è un romanzo (o, se si preferisce, un racconto lungo), è il risultato di una pluralità di scene in interconnessione reciproca.
Molti personaggi del libro, ognuno con un proprio punto di vista e un proprio linguaggio, prendono di volta in volta la parola, impreziosendo di particolari e sfaccettature le trame semplici di brevi storie.
Nella Sicilia del Settecento, estranea alle novità e alle influenze tipiche del secolo dei Lumi, si incontrano un monaco in preda all’ossessione per una certa Rosalia, un pittore di alto rango, signori e briganti.
Di seguito un breve estratto del primo incontro tra frate Isidoro e la seducente Rosalia:
“Mentre andavo, al vespero, per la strada Aragona, col mio passo spedito, sudato per il cammino lungo e per il peso grave delle bisacce, le campagne della Magione sonarono l’Avemaria. M’impuntai e dissi l’orazione. Quando, alla croce, mi sentii chiamare:
“Frate monaco, frate monaco, pigliate”.
E vidi calare da una finestra un panaro con dentro ‘na pagnottella e un pugno di cerase.
“Pe l’anima purgante del mio sposo”.
Alzai gli occhi e vidi nel riquadro, ah, la mia sventura!, la donna che teneva la funicella del panaro e accanto una fanciulla di quindici o sedici anni, la mantellina a lutto sulla testa che lei fermava con graziosa mano sotto il mento.
E gli occhi tenea bassi per la vergogna, ma da sotto il velario delle ciglia sfuggivan lampi d’un fuoco smeraldo. Mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato, un angelo, un serafino come lei.”
Il discorso di frate Isidoro sembra riprodurre le cadenze tipiche dell’oralità.
A sortire questo effetto sono le esclamazioni decise, il discorso diretto che ripropone la voce della madre ruffiana che assume la medesima intonazione di quando in un racconto si prova ad imitare qualcun’altro, nonché le ripetizioni iperboliche portate fino all’esagerazione: “mai m’ero immaginato, mai avevo visto in vita mia, in carne o pittato…”.
Per quanto riguarda la sintassi, tutto si può dire fuorché sia immediata. È sufficiente analizzarla con un po’ di attenzione per ritrovarvi alcuni elementi poetici sapientemente camuffati, come i due endecasillabi appaiati: “E gli occhi tenea bassi per vergogna”, e “ma da sotto il velario delle ciglia” (arricchito dall’effetto della metafora delle ciglia, lunghe e spesse da assumere le sembianze di un “velario”).
Per quanto concerne il lessico rileviamo latinismi di registro nobile, come “grave” (per pesante), mescolati a parole desunte dai dialetti dell’Italia meridionale, come “panaro” (cestino), “cerase” (ciliegie) o “pittato” (dipinto).
Una considerazione particolare spetta alle metafore, decisamente convenzionali, di chiara derivazione letteraria barocca, soprattutto nella dimensione semantica visuale: “lampi” per “sguardi”, oppure “fuoco di smeraldo” per “iridi luminose e verdi”.
Nonostante il velo di simulata vivacità è decisamente inverosimile pensare che questa lingua sia stata parlata da qualcuno. Eppure è proprio la lingua ad essere il vero tratto distintivo dell’opera. Una lingua che si fa essa stessa personaggio, personaggio con il quale il lettore si ritrova irrimediabilmente a dover interagire, a fare i conti, a lottare per cercare di capire e andare avanti nella storia.
Più precisamente: la lingua si fa personaggio protagonista dell’intera opera. Ed è questo che rende la lettura di questo testo decisamente avvincente e appassionante.
Giovanni Testori e la commistione di dialetti
Un altro esempio di lingua inventata che intende riprodurre le cadenze tipiche del parlato ci viene da Giovanni Testori.
Nell’opera dell’autore milanese il sostrato popolare è dato da un miscuglio alquanto indefinito di dialetti dell’Italia settentrionale e centrale. Ciò è particolarmente evidente nell’opera l’Ambleto del 1972, rivisitazione della tragedia di Shakespeare, ambientata in un’insolita e bizzarra Lombardia dei giorni nostri.
Ambleto, il personaggio protagonista, inizia a parlare ancora prima di entrare in scena, dando indicazioni sullo sfondo da preparare per il suo monologo di apertura:
“Più in dell’iscuro! Più in dell’iscuro! Rosso, si. Ma rosso com’è rosso el sanguo dei zinghiali e dei porchi quando ce spaccheno in de su la gola!
Ha de esserci in dappertutto l’aria de un crotto! Ha da esserci in dappertutto l’aria de un crotto! Ha da esserci l’aria d’un buso, d’un inferna!
Più ingravedate quelle nìgore! Più ingravedate e anca più inciostrate!
No! Sulla crose, no!
Sulla crose, lassatela in come è!
Ultimi resti, frattaglie ultime et estreme della fede… (Ambleto entra).
Inzipit Ambleti tragedia! Inzipit qui, a Elzinore. Inzipit a Elzinore o in n’importa che àltero paese.
Mettiamo in del regno de Carmelata. Mettiamo in de quello de Lomazzo.
O anca un po’ più in de giù, quasi alle porte della illustrissima e magnificentissima Medionalensis urbiz.
Tanto fa l’istesso.
Quando si è chiavati indietro della cassa, cassa è e chiavata resta per totos quantos e in totos quantos i loca locorum dell’univerzo mondo.”
Ambleto richiede uno sfondo ancora più scuro, opportunamente suddiviso in rosso e in nero. Ma non chiede un rosso qualunque, piuttosto quello scuro e corposo del sangue di cinghiali e maiali scannati.
Prefigura una scena che riproponga l’atmosfera di una grotta (“crotto”), un’ambiente infernale. Desidera nuvole (“nigore”) ancora più gravide di pioggia (“ingravedate”) e ancora più nere, di un nero che ricordi l’inchiostro (“e anca più inciostrate”). La croce può rimanere così com’è, in quanto è sufficiente il suo simbolo ad evocare la fede che sta lasciando il mondo.
A questo punto il protagonista entra in scena, dando inizio alla rappresentazione con una locuzione palesemente deformata nella pronuncia: “Inzipit Ambleti tragedia” (“comincia la tragedia di Ambleto”). I toponimi che propone sono prevalentemente fantastici come Elzinore (da Elsinore, località della Danimarca in cui è ambientata l’opera di Shakespeare), i nomi dei paesi della Lombardia collocati a nord di Milano (Lomazzo) e Milano stessa.
Non è necessario contrassegnarli perché in qualunque posto la violenza e la morte agiscono allo stesso modo.
Quando si è messi in una cassa inchiodata, questa è e resta chiusa per tutti, in tutti i luoghi (“i luoghi dei luoghi”) del mondo intero.
Come si può notare è opportuna una traduzione attenta di numerosi termini. Il testo, ad una prima disamina, potrebbe sembrare un’incontrollata mistura di espressioni latine e dialettali messe insieme alla rinfusa, senza un criterio predefinito.
Ad una lettura più attenta, invece, è possibile rilevare vere e proprie raffinatezze, tutt’altro che casuali, come un preciso meccanismo retorico fatto di anafore (“ha da essere”, “più ingravedate”, “sulla crose”, “inzipit”), anadiplosi (“Rosso, si. Ma rosso…”) e chiasmi (“quando si è chiavati indidentro della cassa, cassa è e chiavata resta”).
Ma anche il linguaggio cela e rivela al contempo riferimenti letterari opportunamente mescolati ad altri elementi linguistici di origine tipicamente plebea. Nel breve estratto proposto, infatti, è presente un evidente numero di aggettivi dal medesimo significato, alcuni dei quali desunti direttamente da Francesco Petrarca: “ultime et estreme”, “chiavato”, ovvero fissato con chiodi.
L’inedita quanto improbabile lingua parlata dal principe Ambleto è intrisa di una complicata nobiltà, ben diversa dal linguaggio della plebe che si diverte a deformare, scomporre e ricomporre.
Anche in questo caso, la lingua si fa protagonista, sulle cui orme il lettore entra nella storia e procede fino all’ultima pagina.
Esempi, quelli delle opere di Vincenzo Consolo e Giovanni Testori, di come la sperimentazione linguistica, opportunamente condotta e messa al servizio di un’idea narrativa efficace, può produrre risultati di indiscutibile originalità e novità. E di sorprendente qualità.
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