Imre Oravecz e l’amore ai tempi del blocco orientale

Imre Oravecz Settembre 1972

(…) Guardammo fuori dalla finestra e vedemmo il cielo splendente, il mare trasparente, e navi bianche al porto, i gabbiani che strillavano nell’aria, le case scintillanti sulla spiaggia, gli aranci in fiore nei giardini, le persone gaie per le strade, sentimmo la dolcezza del lindore, e comprendemmo di essere davvero arrivati, e con ciò ci facemmo una promessa reciproca, alla quale poi mancammo entrambi con leggerezza.”

Settembre 1972 di Imre Oravecz è un testo cult della letteratura ungherese, un vero e proprio capolavoro della poesia magiara contemporanea.

Pubblicato per la prima volta nel 1988, le poche copie allora stampate andarono a ruba nel giro di qualche giorno.

Fortunati quei pochi che erano riusciti ad accaparrarselo.

Fortunati davvero!… anche se, qualcosa, stava per cambiare.

Il mondo intero di lì a poco stava per cambiare.

Soltanto alcuni anni dopo la caduta del muro, hanno iniziato a fare capolino tra gli scaffali delle librerie, le prime ristampe in Ungheria e le prime traduzioni all’estero del capolavoro di Imre Oravecz.

Fino ad oggi, dove, Settembre 1972, ci giunge in una nuova e bellissima versione proposta da Edizioni Anfora.

Ma che cos’è Settembre 1972?

Oggi, come in quel lontano 1988, la domanda è sempre la stessa.

La risposta, quella, lasciamo che a darla sia ogni lettore che ha la fortuna di imbattersi nelle pagine dell’autore ungherese e di rimanervi piacevolmente impigliato.

Il testo, come si legge nella seconda di copertina, ci viene presentato come un romanzo in versi, qualcosa di molto vicino a quella che generalmente si definisce prosa poetica.

In realtà l’opera di Imre Oravecz sfugge a qualsiasi tentativo di definizione, a partire proprio dal genere di riferimento:

Romanzo?

Diario?

Poesia?

Potrebbe essere tutte e tre le cose messe insieme o, semplicemente, nessuna delle tre.

E poi vi è la questione della struttura.

Una struttura, quella di Settembre 1972, frammentata da spiazzare e sorprendere il lettore.

Struttura che, al contempo, dà misura della maestria di Imre Oravecz di tessere la trama di una storia d’amore suggestiva e potente, raccontata al lettore in maniera magistrale.

Storia d’amore lontanissima dalle gradazioni di dolcezza e melensaggine di cui parte della letteratura contemporanea è piena.

Potenza della poesia, verrebbe da dire.

Eh sì, quella c’è tutta.

“… durante la passeggiata chiacchierammo di tante cose, che ormai nemmeno ricordo, e passammo per strade di ogni sorta i cui nomi sono conservati ormai solo sulle carte, ed eri limpida e indifesa, e mi piacevi sempre di più, e non volevo più procacciarmi una donna, né te, né altre, ma volevo solo stare con te, diventare simile a te, che eri riuscita a farmi dimenticare che tu eri donna e io uomo…)”

Settembre 1972 è composto da novantanove istantanee che altro non sono che novantanove fotogrammi di un amore.

Il titolo, Settembre 1972, è il riferimento temporale che incrocia i ricordi, le ricostruzioni, i pensieri e i ragionamenti dell’io narrante che si dipanano pagina dopo pagina.

Istantanee come paragrafi di una storia lunga novantanove passaggi per poi giungere ad un unico punto, quello posto alla fine.

Il tutto oscillando tra la ricercatezza del verso e una prosa diretta e immediata.

Ma Settembre 1972 è in tutto e per tutto un romanzo?

No, se per romanzo intendiamo la struttura e i canoni tipici del genere.

Il capolavoro di Imre Oravecz è una sequenza di scatti, immediati e sensazionali, come potevano essere i fotogrammi del primo cinema, quello dei fratelli Lumiére.

Scatti che tracciano una linea del tempo della storia ad ordine sparso.

Nessuna confusione o smarrimento per il lettore.

La storia d’amore raccontata da Imre Oravecz traspare dal testo in maniera chiara ed evidente in tutta la sua forza.

Storia, la cui regia, è affidata al pensiero e al ricordo dell’autore.

Uno storyboard che incalza e rilancia di continuo, talvolta risalendo le orme del ricordo, talvolta quelle della malinconia.

Una successione in cui Imre Oravecz, attraverso un io narrante appassionato e implacabile, mette le cose in chiaro fin da subito: la storia d’amore narrata non è finita bene.

“In principio era

il tu, era il là, era l’allora, era il cielo azzurro, era il sole, era la primavera, era il caldo, era prato, era il fiore, era l’albero, era l’erba, era l’uccellino, era la forza, era il coraggio, era la risolutezza, era la leggerezza, era la fiducia, era l’altruismo, era la ricchezza, era la gioia, era la serenità, era il riso, era il canto, era il parlare, era la preghiera, era la lode, era la stima, era l’affiatamento, era la dolcezza, era la lindura, era la bellezza, era l’affermazione, era la fede, era la speranza, era l’amore, era il futuro, poi il tu è divenuto lei, il là qua, l’allora l’adesso, il cielo azzurro fumo nero, il sole pioggia, la primavera inverno, il caldo freddo, il prato acquitrino, il fiore sterpo, l’albero cenere, l’erba fieno, l’uccellino preda, la forza fragilità, il coraggio codardia, la risolutezza indecisione, la leggerezza pesantezza, la fiducia sospetto, l’altruismo egoismo, la ricchezza povertà, la gioia dolore, la serenità inquietudine, il riso pianto, il canto strepito, il parlare balbettio, la preghiera bestemmia, la lode maledizione, la stima disprezzo l’affiatamento discordia, la dolcezza amarezza, la lindura sporcizia, la bellezza bruttezza, l’affermazione negazione, la fede dubbio, la speranza disperazione, l’amore odio, il futuro è divenuto passato e tutto ricominciava da capo.”

Ed è il ricordo la linea su cui viaggia la maggiore intensità emotiva e si libera la potenza espressiva di un autore tra i più apprezzati nel nostro tempo.

È nelle rievocazioni che corrono e si rincorrono attraverso queste diapositive e che oscillano tra la passione e i litigi, la pace e il calore e le incomprensioni ancora, che viene fuori l’affresco di un amore senza vincitori.

E in quest’altalena di ricordi vi è la profondità dello sguardo dell’autore e la consapevolezza di come amaro e inadeguato sia tutto ciò che è avvolto dalla pellicola del tempo e dalla malinconia.

Uno sguardo che non fa caso a nomi, strade, eventi o date, se non, appunto, quel Settembre 1972.

Tutto introiettato e rigettato dalla voce narrante mediante un registro linguistico, un tono e uno stile che si fondono insieme in una narrazione particolarissima, dove la stessa protagonista femminile della vicenda, a cui è dedicata la storia, rimane magicamente sullo sfondo, nei sui tratti indefiniti.

Come indefinito è il vortice di immagini e suggestioni che si susseguono e che mai confondono o stancano il lettore.

“…come chi allunga la mano verso qualcosa al quale non può più arrivare, ma comunque allunga la mano perché non può fare altro, ti baciai, con tale veemenza che dalle tue labbra scaturì il sangue, e il suo sapore salato si mischiò nella mia bocca al dolce sapore del bacio, e dopo di allora per tanto tempo, anche dopo anni lo sentii, e lo sento ancora adesso, quando ormai anche il sapore dolce è scomparso, e ormai non sento altro di te”

Una voce narrante che non è propriamente quella dello scrittore, così come la figura femminile a cui si rivolge non è una donna precisa.

Piuttosto scatti diversi di donne diverse, dove una soltanto assume i caratteri di eccezionalità: una donna straniera.

Eccezionalità che risiede nel calco dell’amore corrisposto, non certo nei tratti fisici e caratteriali della donna descritta, che è una donna comune, una come tante.

Da qui i pensieri di Imre Oravecz volano ai primi sguardi rubati, ai primi incontri, agli spostamenti, alle litigate, all’amore, ai tradimenti, alle lacrime e ai sorrisi, alle lettere inviate e ricevute lungo il blocco orientale.

Fino al ricordo, volto a ricostruire il volto dell’amata molto tempo dopo l’amore che fu.

E, implacabile, il desiderio di volerla incontrare ancora.

Una volta ancora.

“Adesso provo a immaginarti
non come una radiosa, giovane ragazza, ma come signora di mezza età senza luminosità, quale non ti ho mai vista (…)”

Poeta, scrittore e traduttore, Imre Oravecz è un vero e proprio simbolo della letteratura ungherese, nonché uno dei più originali innovatori della poesia del nostro tempo.

Dopo l’esordio sulla rivista letteraria Alföld nel 1962, ottenne l’autorizzazione da parte del regime a pubblicare il suo primo libro soltanto dieci anni dopo, nel 1972:

“Scrivevo di cose completamente diverse rispetto a quelle di cui scrivevano gli altri scrittori e questo già in sé significava uno svantaggio. Inoltre, quello che scrivevo, era contrario alle dottrine del socialismo reale, nel segno delle quali si poteva pubblicare.”

E l’intellighenzia non gli perdonò la sua partecipazione all’International Writing Program dell’Università dell’Iowa.

Al rientro dagli Stati Uniti, il trattamento ricevuto fu all’insegna dell’isolamento e della delegittimazione personale e artistica.

Il trattamento tipico che si riserva a un dissidente.

Oltre quindici anni dopo, nel 1989, il regime sovietico gli conferì il prestigioso riconoscimento Premio Attila Józef, premio che Imre Oravecz rifiutò emigrando negli USA e da cui fece ritorno nel 1990, assumendo la carica di consigliere presso la presidenza dei ministri del primo governo democraticamente eletto.

Vincitore del Premio Kossuth (2003), del Premio Prima (2015) e del Premio Aegon (2016), Settembre 1972 di Imre Oravecz è stata definita una delle opere di riferimento della letteratura ungherese contemporanea, di cui il professor Péter Sarkozy ha scritto:

“Vale la pena leggere quest’opera che affascina per il suo stile spesso antifrastico, autentico, oggettivo e asettico, privo di ogni tabù.”

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