Gaétan Soucy e La bambina che amava troppo i fiammiferi

Gaétan Soucy La bambina che amava troppo i fiammiferi

“Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l’universo in mano una mattina poco prima dell’alba perché papà era spirato all’improvviso. La sua spoglia contratta in un dolore di cui restava soltanto la scorza, i suoi decreti finiti di colpo in polvere, tutto ciò giaceva nella stanza al piano di sopra da cui papà, ancora soltanto il giorno prima, ci comandava in tutto e per tutto. Avevamo bisogno di ordini per non cadere a pezzi, mio fratello e io: erano la nostra malta. Senza papà non sapevamo fare niente. Da soli, riuscivamo a malapena a esitare, esistere, aver paura, soffrire.”

Questo l’incipit de La bambina che amava troppo i fiammiferi, opera di riferimento di Gaétan Soucy, romanziere canadese troppo presto scomparso.

Pubblicato per la prima volta nel 1998 e riproposto in una bellissima edizione da Marcos y Marcos, La bambina che amava troppo i fiammiferi è un testo insolito e spiazzante.

Prosa non ascrivibile ad un genere letterario preciso, se non a patto di dover inevitabilmente sacrificare qualcosa al cospetto degli schemi più o meno rigidi delle classificazioni.

Storia, quella narrata da Gaétan Soucy, in cui la fiaba gotica incontra i caratteri della tragedia e dove le velature da romanzo di formazione si diradano ben presto, lasciando il posto alle gradazioni più intense in cui si può palesare l’orrore.

Il tutto mediante una vertigine linguistica notevole.

“Che altro fare se non scrivere in questa vita? D’accordo, d’accordo, ho detto ‘le parole: bambole di cenere‘, ma anche questo è ingannevole perché alcune, quando sono ben allineate in frasi, ci danno una vera e propria scossa al contatto, come se si posasse il palmo su una nuvola proprio nel momento in cui è gonfia di tuono e sta per scoppiare. È la sola cosa che mi aiuti, questa. A ognuno i suoi espedienti”.

Con in mano una matita e il suo linguaggio talvolta arcaico e volgare, talvolta aulico e ricercato, l’io narrante, che è quello di una ragazza (forse è un ragazzo?) che parla di sé al maschile, vive con suo fratello in un castello circondato da una fitta pineta.

Sulle loro “non vite” aleggia la presenza di un padre crudele e violento, dal quale i due provano a rifuggire tracannando vino “a garganella” e leggendo tutto quanto si trova sugli scaffali della biblioteca di quel castello diroccato.

Dalle parole del padre le poche e vaghe informazioni sulla vita al di là di quel vuoto di confine che è la pineta.

Dai romanzi cavallereschi e dai testi di Spinoza e Simon, l’unico ponte per raggiungere un altrove, il posto perfetto dove riparare ogni volta.

“Sono duri a morire i dizionari, come se niente fosse hanno la calma cocciutaggine del legno da cui sono nati, gli alberi non potevano farci regalo più bello.”

È cresciuta con gli occhi su quelli che lei chiama dizionari (ma che in realtà sono romanzi cavallereschi), da cui ha imparato cos’è l’amore, in modo particolare quello per le parole.

Le sue, quelle con cui scrive una sorta di diario-testamento, sono parole inesatte, strampalate, grezze.

Parole che non hanno mai incontrato la realtà e, per questo, non ne contengono la misura.

Gonfiori, dizionari, cammello a coda, castigo, puttane, …

Tutti termini che soltanto scorrendo le pagine è possibile decriptare, come i giochi di parole e le imboscate linguistiche tese in maniera magistrale da Soucy.

Un frasario sbrindellato, ora semplice pensiero, ora dialogo, in continua oscillazione tra volgare e lirico.

Si perché dietro quel misto di versi, assenza di articoli e nomi propri, termini arcaici ed espressioni scurrili, si cela un mistero e si intravede un segreto, tenue e flebile come solo la luce di un fiammifero può essere.

Un segreto da ricercare proprio in quel luogo nascosto, dove la protagonista custodisce qualcosa di cui non si può parlare.

Qualcosa di cui soltanto l’autrice-scrittrice potrà occuparsi e dare conto a se stessa.

“E delle facce cominciavano a comparire nello specchio convalescente. Un’accozzaglia di volti, con il tumulto che pian piano cresceva. E gonne a non finire, e parrucche, e cavalieri in coda di rondine, magari, e la ressa cominciava a traboccare dallo specchio nella sala, che si riempiva e ne era invasa”

Tutto ha inizio con la morte di quel padre crudele.

La ragazza e suo fratello si spingono oltre i confini di quella casa-prigione fino a raggiungere il paese vicino per provvedere alla sepoltura.

Sul loro cammino personaggi come il principe, la tonaca, l’accattone, il cavaliere, l’ispettore minerario; figure che lei, “gonna lunga”, riconosce all’occorrenza come amanti o come nemici.

E poi tutte quelle cose nascoste nei libri e di cui lei, “capelli massacrati da un taglio annuale del padre”, nulla conosce, essendo parte della vita ordinaria e civile degli esseri umani.

Così non mancano le macabre descrizioni dei corpi e dei loro istinti, come non mancano gli atroci misteri che avvolgono la vita dei due fratelli, delineando uno scenario particolarmente avvincente.

“Anch’io avevo creduto a lungo, per religione, che papà ci avesse impastato con del fango. Ma tra le cose che si credono per religione e le cose che si credono e basta, ce ne corre, e io avevo visto benissimo fin da quando ero alta come due soldi di cacio da dove uscivano i vitelli e i porcelli, non mi sono mai sentita un’eccezione.”

Gaétan Soucy, attraverso un’impalcatura narrativa geniale, scaraventa il lettore nello spazio sconosciuto di una fiaba gotica a cavallo di un linguaggio dirompente, capace di infiammare anche la fantasia più assopita e condurla lungo i colpi di scena disseminati nel testo, fino allo svelamento finale.

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