Canto degli alberi: Antonio Moresco sulla soglia dell’eternità

Canto degli alberi Antonio Moresco

Suonano!

La voce al citofono gracchia che c’è un pacco per me.

“Non ho ordinato niente… non aspetto alcun pacco!” penso, tra la noia e la seccatura di dover scendere e risalire le scale per un errore di spedizione o, forse, per la solita pubblicità.

In strada, il postino mi rifila l’involucro, mi fa firmare da qualche parte e riprende il suo giro.

Risalgo le scale e interrogo con gli occhi la scatola di cartone che ho tra le mani.

Chiudo la porta di casa alle mie spalle e libero il pacco dal cellophane che lo avvolge.

Scorgo un biglietto.

Dice che è un regalo.

Un regalo per me.

Un regalo speciale da parte di una persona cara.

Sorrido e le mando un bacio con la mente.

Lascio scorrere il contenuto nell’involucro e mi ritrovo tra le mani…

Antonio Moresco, Canto degli alberi!

Rimango senza parole.

Canto degli alberi

Mi chiedo dove sono stato per non sapere che è uscito il nuovo libro di Antonio Moresco.

Mi guardo intorno meravigliato.

Penso che è sabato e che sono soltanto le otto e venti del mattino.

Che quelli del sabato sono pur sempre impegni, è vero.

Ma che poi, in fondo in fondo, è sabato e potrei tranquillamente…

Penso e ripenso che…

 

Mi rifugio in soffitta e siedo tra le mie scartoffie.

Il sole del sabato mattina filtra dalle imposte.

Tra le mani ho Canto degli Alberi.

Ne accarezzo la copertina, mi piace sentirla scorrere sotto le dita.

D’improvviso il mio pensiero torna a quando, poco più che adolescente, mi sono imbattuto per la prima volta, per caso, ne Gli esordi, il primo libro di Antonio Moresco che ho letto.

Ricordo ancora la meraviglia per quella scrittura, il suo potere immaginifico, la sua forza visionaria.

Appena poche pagine per essere scaraventato di colpo nell’universo narrativo di un autore allora a me sconosciuto.

Il tempo di far traghettare Il Gatto e Il Matto verso i gironi dei Canti del caos e via, a risalire a ritroso le pubblicazioni precedenti, tra cui Lettere a nessuno, Clandestinità, La cipolla.

Da lì, a seguire, con le opere successive.

Anno dopo anno, pubblicazione dopo pubblicazione, fino ad arrivare a Lo sbrego, Gli incendiati, La lucina, Gli increati, Fiaba d’amore del vecchio pazzo e della splendida ragazza morta, Canto di d’Arco, romanzo uscito appena pochi mesi prima del libro che adesso ho qui davanti a me.

Siedo su un vecchio pouf con Canto degli Alberi tra le mani.

Mi attraversano la mente le parole di un’intervista di Antonio Moresco, letta e riletta da impararla quasi a memoria:

“…Vivevo molto isolato, ho dovuto cercarmi gli amici e i fratelli nei libri, attraverso il tempo e lo spazio, e loro mi dicevano cose che io ritenevo vere perché le avevo sperimentate, non come quando si apprendono a scuola per dovere e possono perdere quell’incanto, quella verità che possiedono.

 Ho cominciato a maturare l’idea che avevo dentro di me un bisogno di espressione che era rimasto fino ad allora bloccato e, in quel posticino alla periferia di Milano in cui vivevo, ho cominciato seduto sulla tavoletta del water, col quaderno sulle ginocchia.

Era come se dovessi imparare a scrivere mentre scrivevo, all’inizio facevo molta fatica, ero autistico a fare uscire le frasi una dopo l’altra.

Però la vita ti sorprende, si apre di colpo quando non te l’aspetti, ti tende degli agguati e ti fa fare delle cose che erano dentro di te e trovano finalmente una strada per venire fuori.

L’importante è rimanere sempre aperti e non avere mai paura di abbandonarsi a quello che sentiamo essere la nostra passione…”

Penso che anche per me sia così.

Che sia sempre stato così.

Esattamente lo stesso.

Anche io, a mio modo, oltre il tempo e oltre lo spazio, penso di avere un pugno di amici e fratelli dispersi tra le pagine dei libri.

Antonio Moresco è uno di loro.

Sulla bandella di sinistra:

Ho scritto questo libro nei mesi di isolamento per la pandemia.

I suoi protagonisti sono gli alberi, in particolare gli alberi murati, quelli che crescono dentro i muri delle case degli uomini, visti come una nuova specie crocevia tra più mondi (vegetale, minerale, umano) e prefigurativa.

L’ho scritto mentre ero anch’io murato, come tutte le donne e gli uomini del nostro Paese e del mondo, in un momento cruciale anche della mia vita personale, per di più bloccato dal divieto di viaggiare in una casa di Mantova, la città dove sono nato e ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, scatola nera della mia vita.

Questo libro anche per me inaspettato è la mia risposta di scrittore a questo trauma e il mio appello a compiere un salto di piani e di specie e a dare vita a una metamorfosi.

L’ho scritto giorno dopo giorno, in totale solitudine, con ispirazione, liberando in un unico flusso narrativo testimonianza, corpo a corpo col mondo, autobiografia trascesa, abbandono lirico, romanzo drammaturgico e figurale, canto, sogno, immaginazione, invenzione.”

Mi sembra di sentire il suono della sua voce, la sua inflessione, mentre pronuncia queste parole.

Proprio come la voce di un amico al citofono.

Un amico che ti invita a scendere e a fare due passi con lui.

Ed io, proprio come succede con un amico che non ha bisogno di molte parole per convincerti, non posso fare altro che scendere in strada e seguirlo.

Scorro l’incipit di Canto degli alberi:

“Sono prigioniero a Mantova, la città dove sono nato e dove ho trascorso la mia terribile infanzia e la mia adolescenza.

Tutt’intorno desolazione, silenzio.

Che cosa sta succedendo?

Sta succedendo qualcosa di nuovo o si sta svolgendo sotto i nostri occhi un’antica battaglia negli abissi chimici della vita?

Siamo in preda agli spasimi dell’agonia o alle convulsioni della nascita? …”

Di colpo mi ritrovo scaraventato in quell’universo narrativo, con la stessa levità con cui Alice sprofonda nella meraviglia dei propri sogni.

In Canto degli alberi siamo camminatori notturni e solitari.

Un po’ come lo eravamo ne Il grido e nel Canto di D’Arco.

Ma questa volta è diverso.

Molto diverso.

Antonio Moresco è costretto qui, nella sua città natale, a causa della pandemia.

Da qui non si può uscire.

Non si può andare via, almeno per il momento, dal posto in cui, molti anni fa, ha avuto inizio tutto.

Una permanenza forzata in una città deserta, dove ai ricordi del passato si sommano gli scorci di una città attuale assente a se stessa.

“ E anche la mia casa di Mantova, davanti alla quale mi capita di camminare, di notte, adesso, che il corso della mia vita è stato travolto e che sono dovuto ritornare nella mia città etrusca, nella mia scatola nera, nel luogo in cui sono stato evacuato nel mondo.

Vago qua e là lungo le sue serpeggianti stradine di sassi neri che salgono e scendono, ancora più deserte per la pandemia.

Sono tutti tappati nelle loro case, sembra di camminare in una città di morti. ”

Vaghiamo per le strade e i vicoli di Mantova, con addosso i nostri pensieri e i nostri perché.

Ma sul nostro cammino non ci sono i personaggi de Il Grido o le anime del Canto di D’Arco a darci spintoni e risposte.

Lungo il nostro vagabondaggio notturno e clandestino, più nessuno.

Una città assente a se stessa.

Soprattutto, un’umanità assente a se stessa.

“Paradosso dell’antropocene!”, verrebbe da pensare.

“Uno in più rispetto ai tanti!”, verrebbe da aggiungere.

Ma, in realtà, soli non siamo.

Semplicemente, siamo altro.

Si perché, come specie dominante del pianeta, abbiamo maturato, tra le tante, anche la convinzione, arrogante e presuntuosa, di essere l’unica specie ad abitarlo.

Proprio così!

E allora? Cosa si fa?

Nulla, si cammina in clandestinità, tra la solitudine e il silenzio.

Almeno fino a quando, a salvarci dalla solitudine e dal silenzio, un silenzio assordante interrotto solo di tanto in tanto da una musica al pianoforte che risuona da qualche finestra vicina o dal piano di sopra, giunge la natura.

La natura con la sua voce e il suo afflato.

Una voce, quella della natura, che viene fuori dagli alberi.

Un respiro, quello della terra, che soffia come vento tra i rami.

Gli interlocutori di Canto degli alberi (Aboca) sono proprio loro, gli alberi, con cui ha inizio una conversazione fitta e intensa.

Un botta e risposta continuo in cui, il carattere prosopopeico dei dialoghi che scandiscono la narrazione, conferisce alla stessa un’aura quasi fiabesca.

Ma, come tutti i camminatori notturni sanno, una verità non è meno vera se contenuta in una fiaba.

Tutt’altro.

Ecco che allora passiamo dal dialogo con i tronchi murati al dialogo con l’albero fuori testa, dal dialogo con l’albero murato bianco al dialogo con i rami bianchi.

E poi le radici, punto di origine e congiunzione, meraviglioso parallelismo tra la vita vegetale e la vita umana:

“Che cosa sono le radici? mi domando, a questo punto della mia vita, adesso che dopo un lungo giro sono venuto a ricongiungermi col luogo da cui sono partito, con le mie radici.

Che cos’è questo albero capovolto che cresce a testa in giù sprofondato nel terreno freddo e buio e che può arrivare all’80% del peso dell’intera pianta, la sua parte più disperatamente vitale?

Che può estendersi anche per centinaia di chilometri dando vita a milioni di radici capaci di immagazzinare e trasmettere informazioni comunicando attraverso neurotrasmettitori, elaborando messaggi di natura chimica, elettrica, magnetica, vibrazionale.

Che sente la presenza dell’acqua anche a decine di metri di distanza e che può assorbirne fino a trecento litri al giorno con le sue propaggini fascicolate e le miriadi di peli radicali, fornendo al resto della pianta azoto, fosforo, potassio… da trasformare in una linfa che viene scaraventata in alto, nella pianta emersa, in ciò che sarà, lungo canali inventati e che si inventano via via sotto la sua oscura e sotterranea pressione, che prigiona polloni, che produce ormoni…”

E ancora il dialogo con le foglie bianche, il dialogo con l’albero fuori di testa e poi loro, tutti in coro: gli alberi capovolti.

Capovolti, proprio come il verde e il marrone dei colori in copertina.

“Noi non sappiamo perché tutti gli altri alberi hanno le radici affondate dentro la terra mentre noi le abbiamo in cielo.

Però sappiamo che è successo e crediamo anche di sapere come è successo, crediamo di sapere perché, a un certo punto delle nostre vite, abbiamo sentito questa incontrollabile spinta segreta a capovolgerci e ad assumere una simile inconcepibile forma in contrasto con tutte le altre posture vegetali e che tu sei il primo umano a vedere.

Non lo abbiamo fatto tutti insieme.

Non è successo che, da un momento all’altro, ci siamo capovolti.

È stata una cosa lunga, interminabile, dolorosa, che è avvenuta in questa parte remota e disabitata delle campagne e a cui nessun occhio umano ha assistito, solo gli animali che passavano e che si fermavano sbalorditi a guardarci mentre ci divincolavamo e ci sradicavamo dalla terra, solo gli uccelli che volavano impazziti sopra di noi perché non trovavano più i nostri rami e le nostre chiome dove andavano a costruire i loro fragili nidi.

È successo che, a un certo punto, uno di noi, uno che è ancora in mezzo a noi e che in questo momento sta parlando in una sola voce con noi, ha cominciato a poco a poco a sradicarsi da questo terreno dove noi e gli alberi che sono venuti prima di noi eravamo piantati da centinaia e da migliaia di radici di anni e poi a capovolgersi.”

Tante le nostre domande che vengono fuori durante le nostre uscite solitarie e notturne.

Tanti gli insegnamenti che la natura ci offre.

Il tutto unito all’estatica contemplazione della magnificenza del creato, di cui noi siamo solo attimo della sua eternità.

Gli alberi non mentono.

È la natura a non mentire.

Sopra ogni cosa, una consapevolezza:

“È la più grave crisi del dopoguerra.

 Solo poche settimane di epidemia hanno mostrato tutta la fragilità del sistema economico su cui si regge la vita della nostra specie su questo pianeta, la sua feroce astrazione, la sua follia.

Ciò che si riteneva invincibile, che si poneva come dimensione unica che fagocitava e annichiliva tutte le altre, a cui ogni altra cosa era e doveva essere sottomessa, è tenuto in scacco da un microscopico invasore chimico che ha lo stesso andamento virale della nostra specie e delle sue strutture psichiche, sociali e mentali.”

E ancora:

“…le persone hanno bisogno di fabbricarsi delle spiegazioni a portata di mano, dei nemici tangibili, per scaricare su di loro la propria insicurezza, la propria paura, il proprio terrore, hanno bisogno di capri espiatori accessibili per non doversi porre di fronte a ciò che oltrepassa le proprie rassicuranti prigioni mentali, personali e di specie: all’inaspettato, all’intollerabile, a noi stessi.”

Giungo alle ultime righe dell’ultima pagina del Canto degli alberi.

Sono al punto.

Oltre vi è la pagina bianca.

Chiudo Canto degli alberi e rimango nel silenzio a meditare.

Ripenso a quanto ho letto, alle parole aggrappate all’inchiostro aggrappato alle pagine.

Penso a quello che abbiamo visto e sentito di notte per vicoli e strade.

Alle parole degli alberi.

Al vento.

Al battito della terra, al respiro del mondo, allo spazio infinito.

Riapro gli occhi.

Fuori è ormai buio.

Dalle imposte scorgo la luna.

Sembra impigliata tra i rami del noce.

Dal buio del davanzale la campagna dietro casa giganteggia silenziosa.

Mi sembra di sentirla, quella cascata di note al pianoforte.

Chissà chi sta suonando.

Chissà da dove viene quella musica.

Forse dal piano di sopra.

Magari, da una finestra di qualche casa vicina.

Ripenso alle parole di Antonio Moresco.

Lo ringrazio per avermi citofonato stamattina e avermi portato con lui.

Ripenso ancora a dove siamo stati.

A tutto ciò che abbiamo visto, a tutto ciò che abbiamo sentito.

Ripenso al fatto che, certe cose, si possono scorgere soltanto percorrendo l’orlo dell’abisso.

Sbirciando sulla soglia dell’eternità.

 

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