
Una nuvola nel cielo cala la sua ombra nel bel mezzo della piazza. Se ne sta lì, sospesa. Come a sfidare colui che crede che una nuvola, sola, non possa dare un temporale.
Ciccù è steso nell’erba e pensa a com’è che è nato quel suo soprannome.
«Ci-ccù, Ci-ccù» ripete a fior di labbra, mentre fissa la sua nuvola e prova a indovinare, una dopo l’altra, le sue forme, il comporsi e ricomporsi dei contorni: ora stella di mare, ora grappolo d’uva alla vite. Ora grande tetta.
Era andata così.
Alle medie proprio non gli riusciva di capire, una buona volta, com’è che si scrivevano tutte quelle parole come acqua, acquazzone, acquario.
A ben vedere era facile. Eppure, ad ogni tentativo, un nuovo errore.
Ecco che allora la professoressa di italiano lì a ripetergli: “ci… ccù…”, prima la “c” e poi la “q”, mentre lui annuiva e pensava che quando dici acquerello, acqualiscia e acquafrizzante, chi ti ascolta non sta mica a guardare queste cose. Che poi, chi se ne fotte, che tanto con la grammatica non si era arricchito mai nessuno.
Così succede che passano le stagioni, cambiano le compagnie, ma quel soprannome te lo ritrovi pure alle superiori, in un giorno in cui la vita sembra essere venuta a beccarti proprio all’uscita della scuola:
«Ciccù, per quella cosa oggi alle cinque!» gli avevano detto due compagni della quarta.
È steso nell’erba.
Fissa la nuvola ed è come guardare una che pure lei ti fissa.
Ti fissa mentre si confonde con una, un’altra e un’altra nuvola ancora, fino a diventare indistinguibile tra tutte quelle raccolte dal vento nel cielo ormai coperto e sempre più scuro delle cinque del pomeriggio.
Gli piace. Gli è sempre piaciuto guardare il paesaggio.
Anche quella di italiano ripeteva che il paesaggio era una cosa importante.
Quando studiarono i Promessi Sposi aveva detto che nel romanzo la descrizione dei panorami serviva soprattutto a far capire l’anima dei personaggi. Che il paesaggio era una specie di specchio del loro stato d’animo.
Ad esempio “l’Addio ai monti” stava a sottolineare la tristezza di Lucia per dover abbandonare i luoghi in cui aveva vissuto fino ad allora; la valle cupa del castello dell’Innominato faceva comprendere la sua stessa violenza e nel villaggio che dovevi attraversare per arrivare al palazzo di don Rodrigo pareva che ce lo vedevi lì seduto insieme a loro, il Male. Con i bravi messi a guardia. Negli scheletri dei corvi. Nelle finestre scure e sbarrate. E nella voce dei mastini che urlavano.
Ciccù si chiede se qualcuno l’ha mai visto somigliante a uno di quei bravi, quando don Gaetano lo metteva a guardia del Vicolo.
In ogni caso, questa cosa del paesaggio era proprio vera.
L’aveva provata un pomeriggio d’inverno, quando la pioggia forte lo aveva chiuso in casa.
Quel giorno era rimasto tutto il tempo alla finestra a guardarla scendere e lavare e scolorare quei palazzoni verdi e tutti uguali.
Aveva pensato che la pioggia che scendeva, portava via anche un po’ della sua speranza.
La speranza di una giornata piena di luce. La speranza di chiudere gli occhi e svegliarsi in un posto migliore. Lontano dai quei lampioni tristi e soli di periferia. Lontano, dove neanche una moto truccata può arrivare.
E poi c’era Lucia.
I suoi compagni se la pensavano bona. Bona proprio come la modella in slip e collant sul manifesto gigante, in alto, all’entrata del quartiere. Mentre a quel cazzone di Renzo gli avrebbero dato ddoje botte ‘e pistòla dint e cosce.
Per lui, Lucia aveva il viso di Mariasole.
Mariasole che quando sorrideva, sorrideva pure con gli occhi. Mariasole che più che parlare ci piaceva ascoltare. Mariasole che, come lui, nascondeva nel silenzio i pensieri migliori. Un giorno o l’altro l’avrebbe fatto. L’avrebbe acchiappata e glielo avrebbe proprio detto, che ci piaceva. Tanto. Allora lei avrebbe detto la stessa cosa anche di lui e i suoi pensieri, mischiati a quelli di lei, avrebbero inventato pure la felicità.
Osserva il cielo che mormora qualcosa.
Una donna affretta il passo e porta in casa spesa e nipotini mentre da una finestra due mani veloci tolgono via dal filo i panni stesi ad asciugare.
Nei Promessi Sposi, un giorno che fra Cristoforo lo guardava pure lui, il cielo era sereno nonostante il periodo della grande carestia e, a mano a mano che il sole si alzava dietro il monte, la luce scendeva, per illuminare lo stesso tutte le cose. Era una bella scena, che però diventava sempre più triste ogni volta che appariva e si aggiungeva al paesaggio la figura di una persona.
Ciccù è steso nel suo sovrappensiero umido e affanna.
Non gli riesce più di respirare. Proprio come quando da bambino il male alla pancia lo aveva piegato in due dal dolore. Quella volta sua madre gli accarezzava i capelli e ad ogni suo lamento gli sussurrava:
«Pensa a una cosa bella. Pensa a una cosa bella!», il tempo di ingannare il dolore e arrivare presto in ospedale.
Così aveva pensato forte alle domeniche al mare, alle partite di pallone senza fine sul prato spelacchiato del quartiere, alle risate il giorno di Natale.
Aveva funzionato. In ospedale si era addormentato e, una volta sveglio, il dolore e la peritonite se ne erano andati.
Ma stavolta è diverso.
Questa volta gli hanno sparato nella pancia.
Sta morendo e pensa al paesaggio.
Ha sbagliato.
Tutto.
Ma adesso glielo può dire al paesaggio, di parlare per lui.
Se potesse tornerebbe volentieri indietro, per sedersi accanto a quella di italiano, non fare più lo stronzo e cercare di capire.
E scrivere finalmente bene acqua, acquazzone, acquario. Che così, niente più soprannomi.
Perché le cose possono cambiare. Sempre. In ogni istante. E te ne accorgi subito quando succede. Perché cambia pure il paesaggio.
Dopo aver parlato con Lucia e sentite le sue ragioni, per l’Innominato la valle cupa non era più cupa, ma finalmente rischiarata.
Perché la luce era entrata anche dentro di sé.
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